Decidiamolo Insieme

Il buon esempio parte dal basso. Con noi la democrazia si evolve!
Fabio D'Anna

Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente.
Per cambiare qualcosa costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta.
Buckminster Fuller

  • Intervista a Francesca Pacini

    Intervista a Francesca Pacini

    di Raffaele De Sandro Salvati


    Francesca Pacini nasce a Senigallia e ci resta fino alla fine del liceo. Vive in America per un anno, perfeziona l’inglese, poi decide di tornare in Italia. Così migra a Milano dove studia Comunicazione all’Istituto Europeo di Comunicazione. Nel 1993 arriva a Roma, frequenta un corso di giornalismo e inizia la sua gavetta. Si iscrive all' Ordine dei Giornalisti incorniciando il suo piccolo il sogno, quello del giornalismo culturale. Oltre ad essere promotrice di progetti editoriali, diventa caporedattore di riviste come Storie e Il Laboratorio del Segnalibro. E’ l’ideatrice (prima in Italia) nel 2000 di un corso di formazione professionale per redattori editoriali. Da quel momento fino al 2004 è direttore didattico dei corsi per redattore da lei ideati per Il Segnalibro, insegnando anche in aula e seguendo costantemente gli allievi. I corsi si sviluppano e approdano anche a Bologna e Napoli. Nel frattempo decide anche di fare l’ufficio stampa di Fedro, di Laura Quintarelli e Bruno Benouski. Nel 2006 torna ai mestieri dell’editoria e della comunicazione, e dopo alcune consulenze e collaborazioni editoriali fonda Stylos. Si specializza nell'Art Direction e nel Copywriting; dal 2010 dirige il settore Immagine&Comunicazione dell'azienda di servizi e creazioni cosmetiche per l'hotellerie internazionale la Bottega dell'Albergo con sedi a New York e Shangai e Brasile. Sempre nel 2006 progetta la rivista on line Silmarillon, che cerca uno sguardo trasversale sul mondo, libero da schemi e ideologie. Nel 2012 fonda e dirige la rivista La stanza di Virginia, un crocevia di voci femminili e non per raccontare il mondo. Nel 2013 pubblica il libro La mia Istanbul-Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d’Oriente. Il libro è tuttora in presentazione in Italia e racconta il suo amore per la grande città a metà fra reportage e guida.

    Ringraziamo Francesca Pacini per aver accettato il nostro invito con l’auspicio che da questa intervista nasca una discussione utile e costruttiva per tutti.



    Cosa pensi della Istanbul di Orhan Pamuk. Ti ha influenzato?

    In realtà ho sempre avuto un problema, con Pamuk. Ne riconosco la qualità letteraria, le abili doti espressive unite a una mente stimolante, profonda. Ma, onestamente, non sono mai riuscita a terminare un suo libro. A volte capita così, alcuni scrittori risuonano dentro di noi, altri no, pur essendo bravissimi. Insomma, accade un po’ come con le città. Accade come con tutti gli amori. Però Pamuk ha certamente influenzato moltissimi europei con il suo libro e il suo amore per Istanbul. Diciamo che, per quanto mi riguarda, l’amore letterario turco riguarda un altro autore, Nazim Hikmet. C’è un bellissimo verso, suo, che recita: “Non vivere su questa terra come un inquilino”. L’ardore civile, sociale di uomini come Himet è qualcosa che oggi manca, in molti intellettuali. Non è più l’epoca dei giganti, purtroppo questo è il tempo dei nani. Tornando a Istanbul, io credo che ognuno viva “la sua Istanbul”. La città è talmente enorme, divisa tra modernità e tradizione, Europa e Asia, che ognuno di noi può cercare le sue personalissime sintonie. E compiere un viaggio individuale. Concordo, comunque, con quanto scrive Pamuk sulla malinconia di Istanbul. L’ho sentita anche io, questa malinconia, nascosta dietro i colori dei tramonti, in agguato nei vicoli raggiunti dal vento, in mezzo alla folla che sgomita… Forse è uno dei motivi per cui amo tanto questa città, per la sua dolce malinconia.


    Il giornalismo d'inchiesta in Italia è una "longa manus" dei partiti?

    Il giornalismo d’inchiesta dovrebbe essere autonomo. Ma, soprattutto in Italia, “tutti gli uomini del Presidente”, ahimè, non sono guardati a vista da giornalisti lucidi e determinati come Bernestein e Woodward, del Washington Post, che all’epoca smascherarono il Presidente Nixon facendo emergere lo scandalo in cui era coinvolto. Accidenti, quello sì che è vero giornalismo d’inchiesta. Fare i giornalisti vuol dire scegliere di raccontare, in libertà, le faccende del mondo. Se mescoliamo la nostra osservazione con i poteri politici, allora è finita. Non è più giornalismo, sono chiacchiere pilotate, oppure peggio, ciance da salotto. E noi, con i salotti, ci andiamo a nozze. Giornalisti e politici si azzuffano in televisione per colmare i propri narcisismi, le proprie smanie di potere, ma dopo lo spettacolino, tutti a casa. Tutto come prima. E l’Italia stagna. Anzi, affonda nelle sabbie mobili. Grande responsabilità è anche dei media. E di una certa pigrizia intellettuale. Prendi il “copia e incolla” dalle agenzie, che livella l’informazione: ovunque, alla fine, leggi le stesse cose. Quanto alle inchieste, a volte accade che qualcosa di “nuovo” apra una breccia, come nel caso di alcune inchieste de l’Espresso, ma sono perle rare, ormai, in un oceano di banalità. Ma da questo a pensare che sia giusto chiamare tutti i giornalisti “pennivendoli”, come fa Grillo, ne passa. Generalizzare così è pericoloso, e si penalizza chi invece fa il proprio mestiere con serietà, scontrandosi con i poteri vari che legano i giornali ai loro partiti. Ma, intendiamoci, l’informazione che fa Grillo va nella stessa direzione, è pilotata a seconda degli interessi di un movimento che a tutti gli effetti oggi è diventato un partito. Con le stesse logiche di difesa della sopravvivenza, caccia al voto, e dominio sugli altri. Sai, Pasolini, che non rimpiangerò mai abbastanza, diceva: “Il vero intellettuale deve calarsi nella realtà, deve sporcarsi le mani”. E lui, che sapeva e non taceva (“Io so”,. ricordi?) è morto ammazzato portandosi dietro la sua luce, che avrebbe sicuramente illuminato il buio italiano. Oggi quel giornalismo non c’è più, dicevamo. Ma, se ci pensi, i giornalisti, come i politici, sono lo specchio della società. Non possiamo prendere un pezzo e staccarlo dagli altri. E la mediocrità che ci caratterizza, purtroppo, si respira in ogni ambiente, dal piccolo al grande. Ci vuole una rivoluzione interiore, prima ancora di scendere in piazza. E tanta, tanta formazione. E vera informazione, certo. Attenzione però a non scambiare internet come la Soluzione di tutti i Mali. Diffido sempre di quello che trovo nel web, prima indago, verifico. Sai quante volte ho visto citazione sbagliate ficcate in bocca al primo personaggio famoso di turno? Ogni asino vola? No, certo. Ma dobbiamo saper discriminare. O cercheremo le sirene, come fa qualche deputato grillino. Ecco allora il vero problema di oggi, che in qualche misura compromette anche i giornalismo: la mancanza di allenamento nel discriminare, nel verificare il bombardamento di informazioni che riceviamo. Siamo troppo “passivi”, anche quando smanettiamo nel web. Intendo dire, dobbiamo usare di più la testa, collegare i fatti, associare. Ma, in Italia, quell’ dell’autonomia e della lucidità di pensiero è un processo molto difficile.

     

    Cosa fare per favorire l'indipendenza dei giornalisti dalla politica?

     Punterei molto sulla formazione, sull’educazione. Ma ripartendo proprio dai fondamentali. Certo, l’informazione oggettiva, reale, assoluta, è difficile da raggiungere. Anche i paesi anglosassoni, maestri dell’informazione “asettica”, hanno comunque una destra e una sinistra a cui inevitabilmente si finisce per far riferimento. Ma non sono così invischiati nelle logiche dei partiti, il giornalismo riesce comunque a informare, prima che fare gli interessi di un partito. Ma che pretendiamo, noi, in un paese che dopo venti anni non si è liberato di un criminale condannato per evasione? Berlusconi sconfitto per via giudiziaria, non politica. Questo ci fa capire l’anomalia in cui ci muoviamo. Bene, anche la stampa risente e ha risentito della pachidermica lentezza di questo paese, unito sulla carta ma realmente scollegato per quanto riguarda la coscienza civile, alla faccia dei padri del Risorgimento e di chi ha lottato contro il fascismo per regalarci una terra libera, più bella, più giusta, in cui vivere. Da noi l’informazione è sempre stata legata ai suoi risvolti politici. E a quelli industriali. Non credo sia una faccenda che si possa risolvere così facilmente. Fa parte del tessuto di questo paese. Detto questo, abbiamo avuto i nostri Pasolini, Montanelli, maestri del pensiero libero, scomodo. Oggi non vedo figure simili, però. L’indipendenza costa cara, in un paese dove tutto è compromesso, favore, clientelismo. Io mi fido molto più di alcuni blogger che dei grandi giornali. Diciamo che, per avere un panorama completo, bisognerebbe leggere i quotidiani principali, e farsi un’idea. Ma non c’è il tempo. Da noi funziona bene il giornalismo smaccatamente schierato. Allora si può scegliere di leggere con gusto il commento di alcune firme che stimiamo (per quanto mi riguarda, poche). Ma non possiamo pretendere di avere un’indipendenza dei giornalisti dalla politica in una paese in cui tutto è intrecciato, legato da mortifero cordone ombelicale. Non è un problema del giornalismo. E’ un problema italiano.

     

    Elimineresti l'Ordine dei Giornalisti? Se perché?

     Mah. In linea generale, direi di sì. Oppure ne cambierei il funzionamento. Perché poi, qui, tutto diventa lobby, potere, burocrazia. Eppure credo ancora che possa esserci qualche utilità, specie in un contesto come quello contemporaneo, in cui tutti si sentono “giornalisti”, capaci di commentare tutto e tutti. Come ci sono blogger bravissimi, ci sono anche, in rete, tantissime cose di pessimo livello. E tanti giornaletti web che non oserei neppure definire “giornali”. Io sono una che ci crede, malgrado tutto, nella figura del giornalista. Bisogna lottare. Sai, anni fa il mio direttore mi chiamava ironicamente“la Rosa Luxemburg della redazione”. Perché mi battevo anche per i diritti dei colleghi. E piantavo grane se mi si chiedeva di recensire una schifezza perché “ci serviva”, oppure di elogiare, sulla rivista, il libro del direttore (siamo in Italia, appunto). Ho anche io subito i famosi “figli di” che arrivano senza competenza e pretendono di fare un mestiere che non sanno fare, così, per discendenza di sangue. Mi sono ribellata, ho pagato. Si può dire di no. Ma se si fa questa battaglia, bisogna essere pronti a mollare e ricominciare altrove. E oggi, con la carenza di lavoro, diventa ancora tutto più difficile. Non me la sento di giudicare chi si piega al sistema, per necessità. Ecco, in questo senso, una bella ripulita ci vorrebbe, anche nelle redazioni. Nell’Italia della Parentopoli, nulla è mai davvero libero. L’Ordine dovrebbe servire a tutelare un codice deontologico e fare da filtro e tutela nell’esercizio di questo mestiere. Dico dovrebbe, però. E, comunque, più che ordini e contro-ordini, a me interessa che esista il buon giornalismo. E che si provi ad andare verso l’emancipazione del pensiero critico. Jünger diceva che “la vera libertà è solitudine”. Quindi, in giro vedo ancora troppi gruppetti e troppe “targhette”.

     

    Secondo te, la Turchia diventerà Membro UE?

     Non sono un’esperta, posso darti un mio modesto parere. In questo momento, onestamente, mi sembra piuttosto difficile. Vedremo. Ma mi dispiace che l’Europa non l’abbia fatta entrare. Si è spesso pensato anche all’impedimento dovuto al fatto che questo Stato laico ha comunque una popolazione di religione musulmana, ma io credo che il vero motivo sia nelle paure europee davanti ad altri fattori, economici. Come l’agricoltura. La Turchia, se fosse entrata, con a sua specifica conformazione territoriale si sarebbe presa buona parte dei fondi destinati all’agricoltura, fondi che oggi vanno a paesi come la Francia, agguerrita nemica di questo ingresso che, guarda caso, è anche la prima per i finanziamenti UE all’agricoltura). Si è temuto che la Turchia fosse un peso, e invece abbiamo perso un’occasione. Loro, sono cresciuti. Noi, ci siamo impoveriti. Adesso la situazione è diversa. I turchi non smaniano certo per entrare in Europa, credo. A far che? Ad affondare con noi? Guarda caso, negli ultimi anni l’atteggiamento di Erdogan nei nostri confronti è cambiato. E, da un certo punto di vista, lo capisco. Forse Erdogan ha capito che gli conviene guardare a Est, non a Ovest. Del resto, osservo spesso, a Istanbul, la provinciale spocchia di molti italiani che ancora si considerano un popolo “superiore”. Mi chiedo, dove vivono. L’unica cosa è che, con tutti i suoi difetti, noi abbiamo la democrazia, basata su una meravigliosa Costituzione voluta dai nostri padri. In Turchia, la democrazia è una faccenda delicata. Siamo ancora lontani, per molti versi. Anche per quanto riguarda la libertà di stampa. Ma è un paese complesso, molto complesso. Di sicuro, però, non vedo perché non dovrebbe essere potuto entrare in Europa. Finisco con una riflessione che mi fa sorridere. Se l’America, alla quale ci appelliamo sempre, che tanto ci piace e ci influenza, fosse stato un paese qualunque, vicino dell’Europa, e avesse chiesto di entrarne a far parte, avrebbe vista respinta la sua domanda. Perché? Perché in America è in vigore la pena di morte. Erdogan l’ha abolita. L’America no. Una piccola provocazione per farci riflettere sulla complessa realtà con la quale facciamo sempre i conti. Comunque, rimangono faccende irrisolte, come la tensione per la questione di Cipro. E, ovviamente, la questione curda e quella armena. Quanto ai curdi, pare che finalmente si aprano spiragli di luce. Bene, è una cosa che a me sta molto a cuore. Sugli armeni, la faccenda è delicata. In Turchia non se ne può accennare, pena l’arresto e la condanna. La più forte avversaria dell’ingresso turco in Europa è comunque la Francia. E io continuo a credere che i motivi siano stati, in passato, più economici che ideologici. Entrare in Europa ora? Se fossi la Turchia, me ne guarderei bene. E noi abbiamo perso un’opportunità. Faccio parte di quei “pazzi”che, in questa Italia decisamente razzista, pensano ancora che la diversità sia un arricchimento.



    Video ---> Francesca Pacini e il suo La mia Istanbul (TV2000)


     

     Le domande rivolte agli intervistati sono state selezionate da tutti gli iscritti e simpatizzanti di Democrazia in Movimento attraverso scambio di opinioni e votazione finale.

     Quanto pubblicato è riferibile al suo autore, è inteso ad alimentare il dibattito e non rispecchia le posizioni ufficiali di Democrazia in Movimento


    Articolo del 18 novembre 2013

    Utente: DANNA

    Pubblico
    visite 660
    del 29/03/2014

  •  

  • Seleziona altri Articoli

    Altri Articoli

    Tutti gli articoli

    Democrazia 2.0
    Lettera agli indecisi
    Il nemico del mio amico non e' mio nemico
    Il paradosso delle regioni a statuto speciale
    Il Doppio Lavoro

Registrati ora!!!

Download

Login - Accedi

 

In evidenza

Documenti - Argomenti articoli

Sostienici